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Everybody's Rockin' / Old Ways / Landing On Water - The Rolling Stone archives

EVERYBODY’S ROCKIN’ – 1983

Proprio quando ci si sta abituando al Nuovo Mondo Coraggioso di Neil Young, fatto di pop sintetico e amori computerizzati, lui salta nella più vicina cabina telefonica, si straccia il vestito spaziale e riemerge come… gli Stray Cats? Con Everybody’s Rockin’ l’artista più esasperatamente rapido nei cambiamenti molla la new wave e cerca conforto nelle sue vecchie radici registrando dieci rockabilly profondamente primitivi e melodie country-blues nello stile delle Sun Session. Everybody's Rockin' è la spiritosa protesta contro la maggior parte del pop elettronico freddo e serioso (non importa che lo stesso Young ne abbia prodotto l’esempio più eloquente con Trans) ed è una celebrazione della mania danzereccia degli anni ottanta. Otto canzoni sono frenetici ballabili da party, dall’andamento ubriaco del tormentone di Bobby Freeman “Betty Lou’s got a new pair of shoes” fino al maniacale swing alla Chuck Berry della title track. E ognuna di queste canzoni sembra un brano originale di quegli anni per l’autenticità. Tim Drummond pizzica il suo contrabbasso con muscolare semplicità. Karl Himmel tira fuori uno shuffle da locomotiva sulla sua snare drum e Young, che certamente non è Jerry Lee Lewis (the Killer) al pianoforte, cerca di fare del suo meglio con gli scorrevoli ritmi boogie e con la molle verve del suo break alla Killer in “Kinda fonda Wanda”. 
Perfino la stridente voce di Young qui funziona, gentilmente imbottita da una gran quantità di un tradizionale eco ritardato e sostenuta dal gospel solare doo wop di un trio vocale in stile Jordanaires. Young presenta una rilettura diretta ma energica di “Mystery train”, in un pregnante lamento bluesato privo di tutti quegli scontati singhiozzamenti. Resiste anche alla tentazione di insistere con i suoi teneri mugolii nella lamentosa ballad “Raining in my heart”, indugiando solo in un breve monologo (reso un gemito ancor più imbrillantinato) e in un affannoso assolo di armonica. Everybody's Rockin' è una pillola così dolce da inghiottire che non vi dovreste soffermare sulla sua occasionalità o su questioni di indignazione morale. “Quando Ron e Nancy ballano il bop nel prato/ ballano nella Casa Bianca per tutta la notte” dice Young impassibile nell’euforica title track. In “Payola blues” invece non scherza bensì dedica la canzone ad Alan Freed, il pioniere dei deejay che cadde in disgrazia negli anni cinquanta per uno scandalo di corruzione (trasmissione di canzoni per radio solo su pagamento di una bustarella), “perché le cose che fanno oggi ti farebbero apparire un santo”. Poi sopra un fiero andamento rock ‘n’ roll maschera il cinismo del doppio giochismo e delle discriminazioni artistiche delle radio rock in un’amara confezione di facile ritornello: “Se un uomo fa musica” abbaia a un certo punto, “dovrebbero trasmettere il suo disco”. Probabilmente non suoneranno questo. Ma così non è suicidio commerciale? Dovete ammirare Everybody's Rockin' per il nerbo, poi lo amerete per il suono frenetico e il divertente senso dell’umorismo.
Rolling Stone 1983


OLD WAYS – 1985

Siete pronti per il country? Neil Young pose la domanda un bel po’ di tempo fa in Harvest e tredici anni dopo lo riafferma come un imperativo: con Waylon Jennings che lo asseconda, “Get back to the country” esorta a fare così. Jennings provvede a legittimare l’equilibrio country & western di Young in Old Ways cantando e/o suonando su sei delle dieci canzoni. Willie Nelson aggiunge la sua inconfondibile e tremante voce nasale su un altro brano, un lamento con il quasi incredibile titolo di “Are there anymore real cowboys?”. Dio solo sa se Young può fare appello alla credibilità, almeno col pubblico country, il quale è probabilmente il meno blandamente cauto riguardo le ultime incarnazioni del canadese. La prova sta nell’ascolto di quello che risulta essere il suo album più attentamente curato da Comes A Time. Per certi aspetti è perfino del tutto concettuale, anche se non ritroverete le profonde elucubrazioni di Young ascoltando solo la levigata superficie di questo ostentato esercizio purista di country & western. “Get back to the country” ad esempio, è più di un eccitante numero di bluegrass poiché qui si afferma che un ritorno alle radici dopo la donchisciottesca fama dovuta al r ‘n’ r era inevitabile. Ora, con un udibile sogghigno, canta che è “ritornato al fienile”, mentre uno scacciapensieri idiota salta qua e là; ci si chiede quanto vada presa sul serio questa cosa: non molto, credo. L’album inizia con “The wayward wind”, un brano pop primo in classifica nel 1956 rivestito alla Nashville, con tanto di fughe d’archi e banale doppia voce. Ma se è una messa in scena, perché allora così tanti versi suonano veri? Cos’è Neil Young se non un “vento inquieto nato per girovagare”?
Tutte le canzoni fanno riferimento ai “vecchi tempi” e all’essere stato “un uomo più giovane” e in “My boy” canta della giovinezza evanescente di suo figlio con la sua voce più tenera e con una quasi depressa incredulità. Può mai essere che sentendosi il peso dell’età e quella musica country con tutti quei luoghi comuni fortemente radicati, come il fatto che i valori e le verità degli adulti durino oltre i fuochi della gioventù, gli abbiano dato un pretesto per parlare anche di questo? Se guardata sotto questo aspetto, “California sunset” non è un’altra insipida sviolinata allo stato in cui abita Young, ma una potente immagine di un figlio che si è lasciato alle spalle i tempi vagabondi. E in “Where is the highway tonight?”, che rimanda ad un arrangiamento e a un seducente ammiccamento da melodia pop anni cinquanta nella voce, troviamo Young guardarsi alle spalle: “Dove sono i giorni di una volta e le notti pazze?”. Ma proprio quando pensi che ormai sia pronto per la casa di riposo per vecchi rocker, ecco i sussulti. In “Old ways” Young picchia lento e forte sull’acustica, ammette che “le vecchie maniere possono essere una palla al piede”. Viene a pensarci su anche Willie Nelson, che non sembra particolarmente a suo agio in “Are there anymore real cowboys?” dove dovrebbe essere più sciolto nel cantato di quanto appare. “Bound for glory”, una storia che parla di una relazione tra un’autostoppista e un camionista, rimanda a “Me and Bobby McGee”. “Misfitis” è strana come una meteora che cade sulla fattoria, una specie di parabola dell’era spaziale raccontata come una leggenda indiana sul rombo di un contrabbasso e il rumore sordo di una gran cassa con l’occasionale lamento apocalittico della voce di una donna sullo sfondo. “Misfitis” è così disarmante che non si notano né i violini né Waylon Jennings. Abbastanza sorprendente. 
Parke Puterbaugh, Rolling Stone 1985


LANDING ON WATER – 1986

Dopo una serie di scappatelle da una sera, Neil Young è finalmente tornato serio. I suoi tre album precedenti erano solo frivolezze musicali elettroniche (Trans), rockabilly (Everybody's Rockin') e country (Old Ways), nessuna delle quali particolarmente significative o profondamente sentite. Questa volta invece Young si è rimesso a un suono davvero nuovo. Lavora ancora con l’elettronica, ma mentre in Trans usava ritmi dance convenzionali dei computer circondati da spessi e levigati effetti synth, in Landing On Water lascia quegli arnesi elettronici in garage. Invece di usare la tecnologia per l’hi-tech, Young crea un tintinnante suono sintetizzato, accompagnato da un arrangiamento rado e vivace. Per questo disco Young ha distrutto il vocoder che lo faceva sembrare il canto di un microonde. Ci sono anche più assoli della sua grezza e sanguigna chitarra. Ma quello che scuote davvero è il suono della batteria di Steve Jordan, poiché quel suono tenuto così alto nel missaggio ha un effetto esilarante. In “I got a problem” la batteria è irresistibilmente sfacciata e in “People on the street” sembra che Jordan stia prendendo a calci gli altoparlanti dello stereo.
Young illumina le cose col tocco pop in “Violent side” e “Hard luck stories” e per assicurare la solita ironia alla più felice melodia pop vengono uniti i testi più terribili. Young inizia con una nota ottimistica, gettando via il “Peso del mondo” (“Weight of the world”), ma il resto picchia come un uragano. Naturalmente Young è più bravo a scrivere canzoni amare, ma  mentre è bello riascoltarlo confrontarsi con la vita dopo la relativa autocompiacenza dei suoi ultimi due album, questi testi scarni non sono il pezzo forte di Landing On Water. Nessuno ha la sfaldata inventiva dei suoi momenti migliori e quelli più interessanti sembrano ridurre tutto il fermento degli anni sessanta a un "Sogno hippie” (“Hippie dream”). La musica sopperisce in termini di freschezza laddove i testi mancano di carattere. Davvero; Landing On Water non ha la portata di Rust Never Sleeps o di Tonight's The Night, ma è il suo album più consistente degli anni ottanta e la cosa più importante è che Young ha trovato il modo di dare al suono una nuova salutare carica nevrotica. 
Jim Farber, Rolling Stone 1986

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